domenica 31 marzo 2013

L’affascinante romanzo dei “dischi volanti” (parte prima)


L'avvistamento del 1566 a Basilea
Premessa: vorrei proporre ai lettori una serie di articoli, apparsi su “La Domenica del Corriere” alla fine degli anni ’60, che a mio avviso possono fornire una buona base di partenza per tutti i “neofiti” dell’ufologia, ma che comunque saranno una piacevole lettura anche per i più esperti.


Da trenta secoli continuiamo a vederli

Le testimonianze letterarie, pittoriche e monumentali che sono state riunite e studiate in questi ultimi anni, permettono di pensare che i “dischi volanti” siano nuovi solo di nome: più o meno nella stessa forma e con l’aggiunta di una sbrigliata fantasia, questo fenomeno è stato sempre osservato dal più profondo dei secoli. 

Contro coloro che si dicono convinti dell’esistenza dei “dischi volanti”, si sogliono portare due tipi di obiezioni fondamentali: la suggestione collettiva e l’equivoco. Si dice, insomma: “Hai creduto di vedere, ma, in realtà, ti sei lasciato influenzare dai racconti altrui”. Oppure: “Hai visto, ma ciò che hai creduto un disco volante, non era altro che un pallone, un aereo, un fuoco fatuo, un particolare fenomeno dell’atmosfera”.

Si tratta di un gioco chiuso, almeno finché qualcuno non riuscirà a catturare materialmente uno di questi “oggetti sconosciuti”, impacchettarlo e portarlo a chi di dovere. Fino al giorno in cui questo non succederà ogni testimonianza moderna è soggetta, ed è giusto che sia così, alle due obiezioni che si sono dette.

Il metodo di ricerca storico permette, entro una certa misura, di uscire da questo pelago e di camminare in zone “non sospette”, comunque al riparo da queste due accuse. I nostri lontani progenitori romani non conoscevano la stampa, la radio, la televisione: e perciò tra di loro i fenomeni di suggestione collettiva che ci sono così familiari o non avvenivano o avvenivano in altro modo.

Non solo. Dobbiamo tener conto che macchine volanti, luce elettrica, comunicazioni radio e motori sono comparsi non prima di una sessantina di anni or sono, dunque, largheggiando, nell’ultimo secolo. Per i settanta secoli di storia scritta precedenti, non soltanto le macchine volanti non esistevano e quindi non volavano, ma erano anche difficilmente pensabili: la letteratura ci informa di quali sono stati gli sforzi di fantasia dei nostri bisavoli al proposito. Nessuno di essi riuscì ma a escogitare per esempio per il volo qualcosa di diverso da macchine mosse da ali, approssimativamente a quelle di un uccello.


Poiché dunque i cieli erano deserti, e non esisteva nessuna sorgente di luce proveniente da terra che potesse riflettersi in alto, possiamo scartare di colpo gli equivoci: se Plinio il Vecchio ci narra di “scudi rotondi ed ardenti”  veduti traversare il cielo di Roma un secolo prima di Cristo, non possiamo certo pensare che si trattasse di volgari aeroplani commerciali, o di palloni sonda, o della luce dei fari di alcune automobili che giocasse curiosamente con le nubi. Tutte queste cose non c’erano, e Plinio, se vide, vide evidentemente qualche cosa d’altro.

Perciò una ricerca storica accurata presenta notevoli vantaggi, e può permettere qualche conclusione. Essa non è per nulla facile, perché subito dopo incontriamo un grave ostacolo, diretta conseguenza del vantaggio ottenuto: i nostri antenati vivevano, certo, in un mondo in cui la macchina più complicata era il mulino a vento o ad acqua, se non addirittura la leva. Ma, appunto per questo, le loro osservazioni erano straordinariamente grossolane, e di rado centrate su quel che oggi ci interesserebbe di più: in altre parole, se potessimo resuscitare un centinaio di antichi Quiriti del tempo di Cesare, e facessimo passare loro davanti una automobile, è assai probabile che tutti rimarrebbero colpiti più dal colore, e dal suono, che dalla forma. E se dovessero descrivere i suoi fanali, sicuramente parlerebbero in buona fede di “occhi”.

Avviciniamoci dunque agli antichi padri, al copiosissimo materiale che essi ci hanno lasciato e facciamo una prima constatazione: ben raramente si trova una qualunque civiltà che non ci parli di “uomini alati”, “carri e ruote alate”, “dei del cielo e della fiamma”. I testi indù sono molto dettagliati da questo punto di vista, ed allineano almeno tre tipi di ruote alate e di vascelli naviganti nell’aria, i “vimana”. Altre civiltà si limitano a segnalare “vortici luminosi”, “macchine a forma di fuso”, “carri forniti di ali”, “fulgori velocissimi” e così via. Ma in tutte le descrizioni si ritrova un patrimonio concettuale comune: quello secondo cui  i mezzi volanti, comunque essi siano fatti, sono montati dai Signori, dagli Dei, dalle Creature Elette, dai Figli della Luce. In una parola, da esseri che non hanno nulla in comune con i miseri mortali.

Singole testimonianze a parte, è già molto difficile stabilire se queste uniformi credenze siano il prodotto di un certo modo di guardare alla natura che l’uomo primitivo aveva, o sottintendano qualche fatto reale, magari remotissimo.

Questo tipo di perplessità diventa dominante quando ci accostiamo ad altri documenti più precisi, ed insieme più elusivi. Prendiamo per esempio la pietra di copertura del sarcofago scoperto a Palenque, nel Messico, appena pochi anni fa, nel 1953, all’interno di una piramide. Questa pietra è lunga tre metri e ottanta, larga due e venti: pesa tra le cinque e le sei tonnellate, e ricopre i resti di quello che gli scopritori battezzarono subito “l’uomo dalla maschera di giada”, probabilmente un sacerdote del “dio bianco” Kukulkàn, che i Maya avevano ereditato dagli Incas.
 
La lastra tombale di Palenque
 

Noi non sappiamo quasi nulla dell’alfabeto e della lingua maya, e quindi non possiamo decifrare cosa c’è scritto lungo i bordi del disegno centrale: ma esso, in un certo modo, parla da solo, perché vi si vede un qualcosa che è molto difficile non avvicinare ai nostri moderni razzi, o aeroplani a reazione. La figura centrale umana (come si vede dal disegno che pubblichiamo in queste stesse pagine) è certamente un maya, vestito alla moda di milletrecento anni or sono. Ma egli è inserito in una serie di linee che disegnano l’esatto profilo di un razzo, diviso in camere, con grossi motori a poppa, e un aggeggio a prua che ricorda in modo sorprendente i misuratori di velocità che noi installiamo sul naso dei nostri aerei. Più ancora: da quelli che sembrano gli ugelli di scarico del getto posteriore, esce una vera fiamma riccioluta. E le mani del “pilota” sono, con tutta evidenza, impegnate in qualcosa che è difficile non immaginare come una manovra.

Questo disegno pone alcuni interrogativi, ai quali disgraziatamente non si può dare alcuna risposta. Ma è importante segnalare che quella negativa è altrettanto gratuita di quella positiva: è vero che alcuni particolari possono essere frutto del caso, del capriccio dell’artista. Ma questo ricorda davvicino la famosa novella dello scrittore Russel Maloney, il quale descrive l’esperimento fatto, per curiosità, da un ricco americano che noleggiò sei scimmioni per vedere se era vero quel che diceva la teoria matematica: che essi cioè, messi davanti ad altrettante macchine per scrivere, avrebbero buttato giù fiumi di parole senza senso. Ma che alla fine sarebbe anche potuta uscire per caso una frase “intelligente” e persino un libro completo. La novella è paradossale ed umoristica, perché gli scimmioni, messi alla prova, cominciarono subito a scrivere libri interi e perfetti in ogni dettaglio: cosa che è ammissibile, ma, come ognuno può ben capire, perfettamente improbabile.
 
La lastra colorata ad arte per accentuarne le stranezze
 
Per il sarcofago di Palenque può esser detta la stessa cosa: posto indiscutibilmente il fatto che il disegno rappresenta davvero una specie di aeronave, la probabilità che questo sia avvenuto per caso, è straordinariamente remota.

L’archeologia, in questi ultimi tempi, è stata ricca di sorprese del genere, di fronte alle quale rimane in imbarazzo anche l’esperto. Prendiamo per esempio, le due statuette giapponesi Kanegoaka che riproduciamo in questo stesso servizio: si tratta di “esseri” che sono certamente ricoperti l’uno da una specie di scafandro, l’altro da una tuta arabescata. Entrambi hanno la testa ricoperta da due grandi elmi, di foggia leggermente diversa, ma tutti e due collegati al resto dello scafandro da una specie di collare a bulloni. Uno degli elmi è dotato di un paio di enormi occhiali, ma di tipo polare, cioè a fessura molto stretta, evidentemente per ridurre la quantità di luce da filtrare all’interno. La suggestione che emerge da queste statuette è indefinibile e precisa: in qualche modo quelle mani sostituite da qualcosa che sembra una pinza, quelle curiose, metalliche gambe e braccia tronco-coniche, tutta l’atmosfera di cui le figure sono impregnate fanno pensare ad un mistero che attende un chiarimento di fondo.

Le due statuette giapponesi
 

Le testimonianze letterarie lasciateci dai nostri avi accrescono il nostro senso di perplessità. Come per il disegno, vi è sempre la necessità di una interpretazione, non solo della frase, ma anche delle singole parole, poiché molte volte non siamo ben sicuri del loro preciso valore originario.

Uno dei testi più sorprendenti per l’indagine che stiamo facendo è senza dubbio la Bibbia, e tutto quel gruppo di Scritture che vi fiorì attorno. Vi abbondano innumerevoli osservazioni su “prodigi” celesti, alle volte descritti con visibile senso di stupore: e non mancano certo singolari racconti su “assunzioni” in cielo avvenute, come per Enoch ed Elia, in “carri di fuoco” o in “nuvole”. Oltre il significato mistico e fantastico di alcune tra queste descrizioni, si percepisce, come in un chiaroscuro indeciso, anche la traccia di un dato reale, o che gli si avvicina molto: di Enoch, per esempio, esistono tre “apocrifi”, etiopico, slavo ed ebraico, così chiamati dalle lingue in cui vennero tramandati. Nell’apocrifo etiopico, diviso in cinque parti, la terza è intitolata “Traiettoria delle luci nel Cielo”: siamo quasi certi, oggi, che essa non sia altro che la raccolta di un gran numero di osservazioni prescientifiche di uomini i quali avevano notato come il cielo fosse percorso, a tratti, da oggetti che non erano assimilabili né alle comete, né agli asteroidi, né alle stelle e pianeti.

Senza alcun dubbio il Libro di Ezechiele, uno dei grandi profeti dei Sacri Testi, è quello dal nostro punto di vista, più straordinariamente avvincente. In sostanza Ezechiele ci racconta, all’incirca in duecento versetti, di aver visto quella che egli chiama la “Gloria del Signore” per tre volte, e di essere stato portato in volo da essa, ma una sola volta, fino a Babilonia, al campo degli Ebrei condotti in cattività. Vi è un chiaro scompenso nella distribuzione dei versetti: nel Libro, la descrizione di questa “Gloria del Signore” occupa una parte enorme, rispetto al resto della narrazione. E per quanto si possa pensare che Ezechiele desiderasse richiamare a tutti i costi l’attenzione di questi suoi compagni che erano stati fin troppo impigriti e sedotti dalla cosmopolita Babilonia, pure si sente che la parte “cronistica” supera di molto l’intento missionario. Sta di fatto che Ezechiele torna e ritorna con ostinazione su ogni particolare di questa “Gloria”, sforzandosi di far sempre meglio capire di che si trattava.

Premesso che non è facile interpretare tutti i versetti, e ciascuna parola, pare di poter ricostruire che Ezechiele vide, in realtà, una grande e complessa macchina, lucente come rame, nella quale ardeva un fuoco fulgidissimo. Il suo scheletro era costituito da quattro colonne, ognuna sormontata da una coppia di ali, e terminanti, in basso, in una grande ruota “da’ cerchi alti spaventevolmente: e pieni d’occhi d’ogn’intorno”. Nella parte superiore, le colonne terminavano con una cupola trasparente, “simile a cristallo in vista”, e sulla punta di questa cupola stava un ordigno in rame, dotato di un fulgòre. Dalla descrizione di Ezechiele sappiamo anche che tutto questo complesso si muoveva con grande velocità, con un rumore di tuono, ed in modo unitario: il profeta fa un grande sforzo, e spende parecchi versetti per chiarire, alla sua maniera, che le ruote giravano solo quando la macchina si muoveva, ma che la loro posizione relativa rispetto rispetto alle colonne non mutava: lo si sente sudare sulla penna, con uno spirito di osservazione stupefacente, per cercare di rendere in modo esatto il prodigio che vide, e che non era minimamente attrezzato a comprendere. Ma egli riesce ugualmente, con insistenza monotona, a chiarire alcuni spunti che evidentemente gli sembrarono importanti. Quando la macchina si alzava, anche le ali si alzavano: quando si posava, esse si abbassavano, e le ruote cessavano di girare.


La classica raffigurazione della "visione" di Ezechiele
 

Quasi ciò non bastasse, Ezechiele passa a descrivere un episodio anche più straordinario. Dalla macchina escono, chiamati da una voce tonante, sei uomini, compreso quello che si direbbe un capopattuglia. Egli è vestito completamente di bianco e porta un calamaio da scrivano ai lombi: tutti e sei hanno “le loro armi da dissipare” in mano, e con esse, ricevute istruzioni, entrano in Gerusalemme e la distruggono, uccidendone gli abitanti e “contaminando” per ogni dove. La pattuglia rientra, il capo riferisce: “Io ho fatto secondo che tu mi comandasti”.

Ma non è finita ancora, perché la voce tonante prescrive di avvicinarsi alle ruote, entrare in mezzo ad esse, raccogliere nella pugna il materiale ardente che anima la “Gloria del Signore”, e spargerlo sulla infelice città. Cosa che l’uomo vestito di bianco fa scrupolosamente.

Ricostruzione "moderna" de "La Gloria del Signore"
 

 

Ancora la Bibbia

Possiamo respingere ogni interpretazione “moderna” di questo passo, d’altra parte oscurissimo anche per gli studiosi: ma l’espressione “armi da dissipare” rimane piuttosto sconcertante, perché non corrisponde a nessuno degli effetti che un uomo del 600 avanti Cristo era abituato ad attribuire alle armi. Esse potevano tagliare, percuotere, perforare, schiacciare, ma non mai dissipare, e neppure contaminare. Ezechiele è uno dei profeti più oscuri della Bibbia, ed il passo che abbiamo narrato è uno dei suoi oscurissimi: l’espressione “dissipare” è certo un enigma dentro un mistero.

Non si può abbandonare la Bibbia senza parlare di Sodoma e Gomorra e della moglie di Lot, trasformata in sale per essersi voltata a guardare la terribile esplosione sotto la quale perirono le due città. Alcuni scienziati soprattutto russi si sono dedicati con molto impegno a cifrare questa vecchia storia, e molte delle loro conclusioni sono sorprendenti. Tanto più lo divengono quando una spedizione subacquea inglese scopre sotto il pelo del Mar Morto le rovine di quella che potrebbe benissimo essere Sodoma, pietrificate però in modo assolutamente inconsueto. Può darsi che qualche catastrofe naturale abbia distrutto le due città, facendole persino sprofondare nel lago: ma se la Bibbia racconta che da esse, dopo la distruzione, “saliva un fumo simile a fumo di fornace”, e se ci narra dei due uomini che, la sera prima, furono mandati per distruggere materialmente le due città, e che si difesero dall’assalto dei cittadini “percuotendoli d’abbarbaglio”, forse possiamo supporre, dall’insieme dei fatti, che non tutto sia avvenuto in modo così piano come abbiamo sempre pensato.

Le testimonianze degli scrittori latini ci portano su un terreno più sicuro ed anche meno fantasioso. Seneca, Plinio, Tito Livio, un gran numero di storici minori citano spesso, quasi passandosi la voce, i “clipei ardentes”, ovverosia gli “scudi di fuoco”, oltre a tutta una gran corte di “prodigi” dei quali non siamo meglio informati. Uno scudo con scintille passò nel cielo di Roma nel 77 d.C., ed un altro, accompagnato da fasci di luce, era già stato visto nel 60: né si può dimenticare la curiosa origine del piccolo scudo da battaglia dell’esercito romano, la “parmula”, che era poi un cerchio perfetto, con una prominenza rilevata centrale. Questo “modello”, secondo le leggende, era piovuto dal cielo, come benefico dono di Marte.

Salendo nei secoli le testimonianze diradano, ma forse per una insufficiente ricerca degli appassionati di questo genere di studi. Vi è un abate Henry, dell’Abazia di Ampleforth, nello Yorkshire, che il 3 agosto 1290, “con grandissimo terrore”, vede coi suoi fratelli un enorme disco argenteo volare lentamente sulle proprie teste. E vi è il passaggio di un corteo di corpi “luminosissimi ed allineati” sul convento dei frati minori di Ragusa, l’8 gennaio 1388, così come risulta da un Codice degli frati stessi. Una annotazione di Pigafetta, il compagno di Magellano (alquanto fantasioso però, come sanno i lettori delle sue spassosissime cronache di viaggio), ci rivela che si sarebbe avvistato sull’isola Birambota un “disco di fuoco”: e quindi ecco ancora gli strani dischi bianchi e neri comparsi fittissimi nel cielo di Basilea il 7 agosto 1566, così come documenta fedelmente la vecchia stampa svizzera che pubblichiamo in apertura del servizio.

Nei secoli che seguono vi è tutta una processione di oggetti luminosi su un gran numero di città e di contrade: Inghilterra, Germania, Spagna, Italia, Stati Uniti. Cominciano ad essere visti con insolita frequenza anche da uomini di sicuro equilibrio, come i capitani di mare, che scrupolosamente ne annotano le caratteristiche sui loro giornali di bordo.

 

Nell’Ottocento 

Il 22 marzo 1870 è la volta dell’inglese F.W. Banner, comandante della “Regina dei Laghi” il quale verga con mano sicura dopo il consueto “punto nave”: “… i marinai della mia nave hanno avvistato nel cielo un curioso oggetto volante che mi è stato immediatamente segnalato. Aveva forma circolare e restava fermo nel cielo all’altezza delle nuvole, mentre queste si muovevano col vento. L’osservazione è durata oltre mezz’ora”. Il “Times” di Londra pubblica il 26 settembre 1870 la notizia “incredibile” di un oggetto volante contro la Luna, e poco dopo, il 17 novembre 1882 è addirittura l’astronomo Walter Maunder, dell’Osservatorio di Greenwich che descrive a beneficio dei lettori della rivista “Observatory”, “un gran disco circolare di luce verdastra”, che passò con moto uniforme in circa due minuti, all’alba, da un capo all’altro dell’orizzonte. Da buon astronomo, Maunder corredò la sua osservazione con una serie di particolari: “l’iniziale forma tonda – scrisse – era dovuta probabilmente alla prospettiva, perché quando passo il meridiano, aveva una forma quasi uguale a quella di un’ellisse allungata”.

In quegli anni, le osservazioni non provenivano soltanto dai tecnici, ma persino dal cuore dell’Africa. Narra il cronista Afework, grande amico di Menelik, che l’esercito etiopico in marcia verso quella che sarebbe stata la battaglia di Adua, fu atterrito il 16 ottobre 1895 dal passaggio di una “cosa dal colore simile al verde, che lasciava una lunga scia di fumo, e che emetteva un rumore di tuono”. L’anno dopo, il 18 novembre 1896, su Sacramento, California, comparve addirittura un’astronave, che alle 21 venne avvistata su San Francisco e su Oakland, e nel 1897 ci fu un’orgia “americana” di segnalazioni: ancora a Sacramento, a Denver, a New York, a Kansas City. In quest’ultima città venne veduto un grandissimo corpo ovale, sotto al quale pendeva una fortissima luce rossa.

Raffigurazione di un "airship" avvistata nel 1897 negli USA
 
Fu una nave da guerra americana, la “USS Supply”, comandata dal tenente Frank Schofield, ad avvistare in Atlantico, alle 6,10 del 28 febbraio 1904 tre “dischi volanti” in perfetta formazione.

Con la prima guerra mondiale, e l’avvento di macchine volanti, palloni, e persino razzi, finisce l’epoca “storica” degli avvistamenti di oggetti misteriosi nel cielo. Ne abbiamo citati una piccola parte, anche perché un complessivo lavoro di scoperta, su questo filone, non è ancora stato compiuto da alcuno; si tratta, certo, di un compito immane, consistente essenzialmente nella rilettura di tutti i testi scritti che la umanità ha accumulato in cinque o seimila anni della sua complicatissima storia.

Ma quanto possediamo basta a maturare, se non una convinzione, almeno l’impressione che vi siano sempre state per aria cose che hanno lasciato perplesso l’uomo, fin dai primi albori della civiltà. Ne abbiamo tracce letterarie inequivocabili, e racconti che oscillano al limite del credibile, forse da scartare e forse no: tra le tante descrizioni che si possono attribuire alla perenne tendenza dell’uomo a vedere proiettati nel cielo i sogni della sua fantasia, probabilmente una, o due, o più, corrispondono effettivamente a qualcosa di vero e reale.

In un certo senso può ripetersi, per questa serie di fatti, quel che si è già verificato una volta sui vecchi racconti della prima umanità. Sei secoli prima di Cristo il faraone Necho II mandò un suo sconosciuto ammiraglio a circumnavigare l’Africa, per rientrare in Mediterraneo da Gibilterra. Cosa che quel valente e purtroppo ignoto marinaio fece eccellentemente in tre anni, dimostrando quello che i faraoni probabilmente sapevano già e cioè che l’Africa era un’isola. Ma, Erodoto alla testa, gli storici che narrarono questa impresa, si fecero per secoli delle gran risate, perché il grande navigatore egiziano aveva riferito come, navigando a Sud del Continente Nero, si fosse trovato il sole a destra invece che a sinistra. La cosa pareva, e parve per molti secoli incredibile, e prova provata del fatto che l’ammiraglio avesse raccontato un mucchio di fandonie. Ma il tempo gli ha reso quella giustizia che contemporanei e posteri immediati furono incapaci di avere: proprio per quel particolare, noi sappiamo oggi, che “effettivamente” l’ammiraglio di Necho II circumnavigò l’Africa, venticinque secoli fa.

Vedremo nelle prossime puntate come la discussione sulla possibilità di vita su altri mondi sia sempre aperta, e come siano state formulate interessantissime teorie da parte di gruppi scientifici particolarmente qualificati. E’ evidente che, una volta ammessa una vita intelligente su altri pianeti, essa possa giocare sia nei riguardi del futuro, sia in quelli del passato: non esiste una impossibilità teorica che ci forzi ad escludere, i ogni e qualsiasi caso, una remota visita di “qualcuno” sul nostro nascente pianeta. Almeno, è una teoria tra le più affascinanti, che val la pena di discutere come “ipotesi di lavoro”: su questa strada, molti passi sono stati fatti da quanto, nel 1947, il cittadino americano Kenneth Arnold avvistò in cielo quella formazione di “cose” che battezzò “piatti volanti”, gettando contemporaneamente il mondo in una specialissima febbre a sfondo isterico della quale non siamo ancora guariti del tutto.
 

Articolo di F. Bandini, G. Masini e B. Pieggi Pubblicato su “La Domenica del Corriere” anno 69 n. 9 del 26 febbraio 1967

 

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