martedì 9 aprile 2013

L’affascinante romanzo dei “dischi volanti” (parte terza)

Fotogramma di un famoso filmato raffiguranti falsi ufo.

Premessa: la terza parte del servizio pubblicato su “La Domenica del Corriere” nel 1967 parla dei “falsi ufo” e dei modi per crearli. Ovviamente le tecniche descritte si riferisco a quegli anni e oggi ve ne sono di molto più evolute. Resta comunque interessante capire con quale facilità, già all’epoca, era possibile “ingannare” il pubblico con dei semplici accorgimenti.

Buona lettura!


La fertile industria dei “dischi” truccati.

I metodi per ottenere buone fotografie di “dischi volanti” abilmente falsificate sono parecchie decine ed ogni giorno ne nasce uno nuovo: in questa puntata ne passiamo in rassegna i principali, ai quali si debbono alcuni celebri “casi”, che hanno scosso in passato l’opinione pubblica.

La storia non ci ha tramandato il nome di colui che, per primo, realizzò una fotografia “truccata” di disco volante: ma anche se non lo conosciamo, possiamo star certi che la spinta decisiva gli venne proprio da questo termine, “disco”. Difatti, è facilissimo prendere una stoviglia, un lampadario, un piattello, un microsolco: buttarli per aria e, certo con un minimo di occhio, fotografarli. Se si ha cura di sfocare un poco lo sfondo, e di adottare un tempo piuttosto lungo, in modo che il “disco”, per la sua velocità, venga naturalmente mosso, si possono ottenere immagini molto suggestive. Ben diverso sarebbe stato se Kenneth Arnold, il 24 giugno 1947, avesse visto volare sulla sua testa ignara draghi volanti o, semplicemente aeronavi di foggia inusitata: i trucchi si sarebbero straordinariamente ridotti di numero, e i tavoli delle redazioni di tutto il globo sarebbero oggi assai meno ingombri di false “testimonianze”.
 

Non sempre è possibile distinguere un falso, nemmeno coi mezzi di indagine della tecnica moderna, poiché chi li realizza lo fa tenendo conto che le sue negative verranno poi assoggettate ad un minuzioso esame. E si premunisce, realizzando trucchi magari straordinariamente interessanti. Ormai conosciamo abbastanza bene i metodi principali che vengono seguiti, ma non si può escludere che ne vengano trovati di nuovi, sempre più raffinati, visto che un settimanale può arrivare a pagare una foto di dischi, spacciata per autentica, dalle cento alle duecentomila lira.

Come si è detto, il mezzo più semplice è quello di gettare per aria un oggetto rotondeggiante e fotografarlo. Si può però scoprire facilmente questo trucco esaminando il negativo e conoscendo la macchina con la quale di è scattata la foto: se l’oggetto è a fuoco e la linea d’orizzonte (alberi, case e così via) non lo è, significa che l’oggetto si trova tra l’infinito e la macchina. Perciò è abbastanza facile dedurre che si tratta di sagome piccole, appunto piatti e simili. Nessuno può escludere che esistano “dischi” abitati da creature di altri mondi alti come monete da cento lire, ma questo si concilierebbe poco con le descrizioni ordinarie dei “veri” dischi, secondo le quali si tratta sempre di focacce con un diametro da dieci a ottanta metri almeno.

Costruire un disco abbastanza grande e farlo volare davvero è un’impresa quasi disperata. Un modesto aeromodellista può far prendere l’aria a modelli con apertura alare anche di tre metri, con motore o senza. Ma si troverebbe di fronte a difficoltà quasi insuperabili se volesse far volare un disco di diametro uguale, poiché questa forma, chiamata lenticolare, è inadatta a sostenersi e muoversi nell’aria, sia alle basse sia alle alte velocità. Neppure una rapida rotazione attorno all’asse centrale migliora le cattive qualità aerodinamiche di un disco, a parte tutta la complicata serie di problemi giroscopici che questo creerebbe. Perciò l’unica soluzione è quella di far volare, eventualmente, falsi dischi il cui sostentamento sia affidato ad un comune, volgarissimo pallone pieno di gas leggero, idrogeno od elio. E’ quanto la “Domenica” ha fatto per illustrare ai lettori questa possibilità mostrando i risultati che si ottengono. Vedremo più avanti, tuttavia, i limiti di un simile trucco.

Effetti divertenti si ottengono con un comune acquario per pesci, dietro il quale sia fissata una fotografia panoramica, di città o di campagna non importa. Basta che si veda il cielo bel quale dovrà comparire il nostro “disco volante”. Riempita d’acqua la vasca e piazzatavi davanti una macchina fotografica, si fa scendere dall’alto, nel liquido, una piccola sagomina, opportunamente zavorrata, di disco volante. Si scatta la foto quando essa, scendendo lentamente, si trova ne punto dello scenario retrostante che ci piace di più. I raffinati possono anche spolverare la sagoma di borotalco, terriccio fine o sabbia: allora il “disco” si lascia dietro, con una piccola spinta, una scia di bellissimo effetto. Naturalmente bisogna sfocare un poco, e poi stampare la foto in modo che non si veda alcun elemento dell’acquario.

Per “dischi” ancor più misteriosi, la sagoma può essere sostituita da oggetti o liquidi appropriati: sassolini, monete, piccoli tappi, gocce di colla da falegname, olio di lino, olio di ricino, bastoncelli di canfora convenientemente appesantiti. Si può dire che le soluzioni sono infinite, e tutte buone: più le forme sono strane e meglio è.

Esistono numerosi film di “dischi volanti”. Nel 1964 uno degli autori di questo servizio venne convocato in un grosso paese vicino Milano, di notte, e con una serie di precauzioni degne di un giallo, da un gruppo di persone che appunto mostrarono un lungo film nel quale si vedeva distintamente un “disco” che eseguiva manovre nel cielo di fronte ad una finestra, dietro la quale, evidentemente, si teneva l’operatore che aveva azionato la cinepresa. Poiché il “disco” passava e ripassava anche davanti ai particolari dell’orizzonte dimostrando cioè di essere un oggetto reale, il giornalista rimase piuttosto impressionato e non seppe, lì per lì, che cosa pensare. Soltanto molto tempo dopo, riflettendo a tutto l’insieme del film, si accorse che c’era una cosa piuttosto innaturale: come mai l’operatore era rimasto sempre dietro la finestra, che quindi costituiva sempre l’inquadratura del fotogramma, come se già sapesse che il “disco” sarebbe evoluito comunque dentro quel rettangolo? I presentatori del film sostenevano che questo era avvenuto perché il “disco” ubbidiva al cineamatore, anzi che era stato “chiamato” da questi: ma evidentemente la ragione era un’altra. Con ogni probabilità, l’ignoto autore del falso si era servito di un pannello mobile, azionato davanti alla finestra e ricoperto di carta trasparente. Su di esso era stato dipinto il cortese “disco” in visita. Il sistema è illustrato in questo stesso servizio, sia pure con un pannello più piccolo: ma è possibile costruire anche grandissimi, e molto distanti dalla macchina da presa, facendo quindi “volare” dischi molto grossi.

Quando la scena che si vuol “documentare” è buia, molte difficoltà cadono. Su un pavimento o anche su un muro grigio compatto è possibile far muovere o comunque fotografare qualunque oggetto illuminato da luci radenti, con splendidi effetti. Con obiettivo tutto aperto, si può far rotolare una pallina di vetro, anch’essa illuminata, creando “tracce” molto suggestive. Non c’è alcun dubbio che moltissimi trucchi sono stati ottenuti appunto così.

Il 5 maggio del 1959, due studenti inglesi, Brian Whitelaw e Frank Channel, si presentarono a Londra al “Daily Express” e tesero con aria innocente una macchina fotografica. “Qui dentro –  dissero ai giornalisti subito accorsi – c’è un disco volante che abbiamo fotografato a picco sulla Torre del Parlamento”. La pellicola fu estratta e sviluppata: vi era effettivamente un bel disco “tipo Adamsky”, traslucido e ben netto, sospeso nel cielo, a pochi metri dalla bandiera britannica issata sul fastigio del tetto. Ma i redattori del “Daily Express” fecero poca fatica a scoprire che si trattava di una “doppia esposizione”, abbastanza abile. Dopo tre ore di interrogatorio gli studenti crollarono e confessarono che avevano escogitato il trucco per guadagnare le mille sterline, quasi due milioni di lire, che il giornale aveva posto in premio a chi avesse portato una foto autentica di “dischi volanti”. Dapprima, spiegarono, avevano fotografato il Parlamento e poi, in camera oscura, la riproduzione di un disco appiccicata su un vetro, e ben illuminata.

Whitelaw e Channel non erano i primi “doppi espositori”, ma furono due dei pochi scoperti: in effetti quasi nessuno ha interesse a denunziare pubblicamente i falsi messi in luce. Un trucco fotografico non è un delitto, a meno che non serva di supporto per una vera e propria truffa. Ma la maggior parte dei creatori di trucchi non persegue fini di lucro: basta loro la gloria di veder pubblicata la fotografia. E ad alcuni di essi capita persino di costruire un romanzo sul falso, o di divenire personaggi di una polemica, nella quale viene a crearsi una speciale “doppia verità” in fondo stupefacente. E’ il caso di un impiegato italiano che qualche anno fa vendette per 300 mila lire ad un settimanale di Milano una serie di fotografie scattate in alta montagna, nella quale si vedeva un disco dapprima volante, poi a terra, persino con sagome indistinte che sembravano esseri viventi, di una strana specie. Il giornale si persuase che le foto potessero essere autentiche, e dispose perché con una di esse venisse addirittura fatta la copertina. Sennonchè all’ultimo momento l’impiegato fu preso da un notevole terrore sulle conseguenze di quello che egli sapeva benissimo essere un falso e telefonò dicendo con voce fioca la verità, cioè di aver ripreso nel giardino di casa sua, contro alcune piccole rocce, niente altro che un bottone. Il giornale non fece più in tempo a cambiare copertina, e riuscì a salvarsi in extremis con una fascetta sovrastampata, che ridimensionava la notizia.

La parte più divertente della cosa è che alcuni appassionati dei “dischi volanti” sostengono oggi che in realtà le foto erano verissime: ma che il giornale è stato costretto, per misteriose influenze, a camuffare la verità, buttandola in ridere. Non servì neppure, a quell’epoca, che un fotografo di Milano, come si vede nelle nostre illustrazioni, rieseguisse il medesimo trucco, servendosi di un disegnatore assai bravo, per sgonfiare quel gigantesco “canard”.

I falsi non fotografici, quelli che potremmo chiamare “reali”, offrono un lato di particolare interesse: come abbiamo già detto la “Domenica” ha costruito e fatto volare, servendosi di piccoli palloni sonda in uso presso l’aeronautica militare, un vero e proprio “disco”. Il lancio è stato eseguito giovedì 16 febbraio da un punto della periferia nord-ovest di Milano, col programma di far sorvolare all’oggetto l’intera città. Un ingegnoso dispositivo manteneva a tutto l’insieme la quota di circa duecento metri. Poiché il disco aveva un diametro di due metri, ed era colorato di rosso vivo, con la classica forma alla quale tante fotografie e descrizioni ci hanno abituato, si supponeva che sarebbe stato visto da numerose persone, le cui parole sarebbero state poi raccolte. L’esperimento era interessante, poiché avrebbe permesso di decidere, su un oggetto reale, quali possono essere le deformazioni di osservatori casuali. E di stabilire, su un percorso conosciuto, quanti possono essere questi osservatori.

In realtà, dopo un ampio giro sulla città, il falso disco si è allontanato verso nord-ovest, sorvolando Pero, poi Rho, Legnano, Busto Arsizio e Gallarate: nonostante la giornata chiara, e la perfetta visibilità riscontrata da noi personalmente seguendo il tragitto, esso non è stato visto da alcuno, se si eccettua un gruppo di operai a Pero, che non vi ha fatto gran caso.

L’esperimento ha provato, salve ulteriori segnalazioni, che dato un disco, o comunque un oggetto inconsueto nel cielo, la probabilità maggiore è quella che non venga visto piuttosto che quella contraria. La nostra civiltà non è certo da “mani in tasca e naso al vento”: ed è probabile, come diceva Shakespeare, che “vi siano in cielo più cose di quante non sogni la nostra filosofia”.
 

Articolo di F. Bandini, G. Masini e B. Pieggi pubblicato su “La Domenica del Corriere” anno 69 n. 11 del 12 marzo 1967

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