Fotogramma di un famoso filmato raffiguranti falsi ufo. |
Premessa: la terza parte del
servizio pubblicato su “La
Domenica del Corriere” nel 1967 parla dei “falsi ufo” e dei
modi per crearli. Ovviamente le tecniche descritte si riferisco a quegli anni e
oggi ve ne sono di molto più evolute. Resta comunque interessante capire con
quale facilità, già all’epoca, era possibile “ingannare” il pubblico con dei
semplici accorgimenti.
Buona lettura!
La fertile industria dei “dischi” truccati.
I metodi per ottenere buone fotografie di “dischi volanti” abilmente
falsificate sono parecchie decine ed ogni giorno ne nasce uno nuovo: in questa
puntata ne passiamo in rassegna i principali, ai quali si debbono alcuni
celebri “casi”, che hanno scosso in passato l’opinione pubblica.
La storia non ci ha tramandato il
nome di colui che, per primo, realizzò una fotografia “truccata” di disco
volante: ma anche se non lo conosciamo, possiamo star certi che la spinta
decisiva gli venne proprio da questo termine, “disco”. Difatti, è facilissimo
prendere una stoviglia, un lampadario, un piattello, un microsolco: buttarli
per aria e, certo con un minimo di occhio, fotografarli. Se si ha cura di
sfocare un poco lo sfondo, e di adottare un tempo piuttosto lungo, in modo che
il “disco”, per la sua velocità, venga naturalmente mosso, si possono ottenere
immagini molto suggestive. Ben diverso sarebbe stato se Kenneth Arnold, il 24
giugno 1947, avesse visto volare sulla sua testa ignara draghi volanti o,
semplicemente aeronavi di foggia inusitata: i trucchi si sarebbero
straordinariamente ridotti di numero, e i tavoli delle redazioni di tutto il
globo sarebbero oggi assai meno ingombri di false “testimonianze”.
Non sempre è possibile
distinguere un falso, nemmeno coi mezzi di indagine della tecnica moderna,
poiché chi li realizza lo fa tenendo conto che le sue negative verranno poi
assoggettate ad un minuzioso esame. E si premunisce, realizzando trucchi magari
straordinariamente interessanti. Ormai conosciamo abbastanza bene i metodi
principali che vengono seguiti, ma non si può escludere che ne vengano trovati
di nuovi, sempre più raffinati, visto che un settimanale può arrivare a pagare
una foto di dischi, spacciata per autentica, dalle cento alle duecentomila
lira.
Come si è detto, il mezzo più
semplice è quello di gettare per aria un oggetto rotondeggiante e fotografarlo.
Si può però scoprire facilmente questo trucco esaminando il negativo e
conoscendo la macchina con la quale di è scattata la foto: se l’oggetto è a
fuoco e la linea d’orizzonte (alberi, case e così via) non lo è, significa che
l’oggetto si trova tra l’infinito e la macchina. Perciò è abbastanza facile
dedurre che si tratta di sagome piccole, appunto piatti e simili. Nessuno può
escludere che esistano “dischi” abitati da creature di altri mondi alti come
monete da cento lire, ma questo si concilierebbe poco con le descrizioni
ordinarie dei “veri” dischi, secondo le quali si tratta sempre di focacce con
un diametro da dieci a ottanta metri almeno.
Costruire un disco abbastanza
grande e farlo volare davvero è un’impresa quasi disperata. Un modesto
aeromodellista può far prendere l’aria a modelli con apertura alare anche di
tre metri, con motore o senza. Ma si troverebbe di fronte a difficoltà quasi
insuperabili se volesse far volare un disco di diametro uguale, poiché questa
forma, chiamata lenticolare, è inadatta a sostenersi e muoversi nell’aria, sia
alle basse sia alle alte velocità. Neppure una rapida rotazione attorno
all’asse centrale migliora le cattive qualità aerodinamiche di un disco, a
parte tutta la complicata serie di problemi giroscopici che questo creerebbe.
Perciò l’unica soluzione è quella di far volare, eventualmente, falsi dischi il
cui sostentamento sia affidato ad un comune, volgarissimo pallone pieno di gas
leggero, idrogeno od elio. E’ quanto la “Domenica” ha fatto per illustrare ai
lettori questa possibilità mostrando i risultati che si ottengono. Vedremo più
avanti, tuttavia, i limiti di un simile trucco.
Effetti divertenti si ottengono
con un comune acquario per pesci, dietro il quale sia fissata una fotografia
panoramica, di città o di campagna non importa. Basta che si veda il cielo bel
quale dovrà comparire il nostro “disco volante”. Riempita d’acqua la vasca e
piazzatavi davanti una macchina fotografica, si fa scendere dall’alto, nel
liquido, una piccola sagomina, opportunamente zavorrata, di disco volante. Si
scatta la foto quando essa, scendendo lentamente, si trova ne punto dello
scenario retrostante che ci piace di più. I raffinati possono anche spolverare
la sagoma di borotalco, terriccio fine o sabbia: allora il “disco” si lascia
dietro, con una piccola spinta, una scia di bellissimo effetto. Naturalmente
bisogna sfocare un poco, e poi stampare la foto in modo che non si veda alcun
elemento dell’acquario.
Per “dischi” ancor più
misteriosi, la sagoma può essere sostituita da oggetti o liquidi appropriati:
sassolini, monete, piccoli tappi, gocce di colla da falegname, olio di lino,
olio di ricino, bastoncelli di canfora convenientemente appesantiti. Si può
dire che le soluzioni sono infinite, e tutte buone: più le forme sono strane e
meglio è.
Esistono numerosi film di “dischi
volanti”. Nel 1964 uno degli autori di questo servizio venne convocato in un
grosso paese vicino Milano, di notte, e con una serie di precauzioni degne di
un giallo, da un gruppo di persone che appunto mostrarono un lungo film nel
quale si vedeva distintamente un “disco” che eseguiva manovre nel cielo di
fronte ad una finestra, dietro la quale, evidentemente, si teneva l’operatore che
aveva azionato la cinepresa. Poiché il “disco” passava e ripassava anche
davanti ai particolari dell’orizzonte dimostrando cioè di essere un oggetto
reale, il giornalista rimase piuttosto impressionato e non seppe, lì per lì,
che cosa pensare. Soltanto molto tempo dopo, riflettendo a tutto l’insieme del
film, si accorse che c’era una cosa piuttosto innaturale: come mai l’operatore
era rimasto sempre dietro la finestra, che quindi costituiva sempre
l’inquadratura del fotogramma, come se già sapesse che il “disco” sarebbe
evoluito comunque dentro quel rettangolo? I presentatori del film sostenevano
che questo era avvenuto perché il “disco” ubbidiva al cineamatore, anzi che era
stato “chiamato” da questi: ma evidentemente la ragione era un’altra. Con ogni
probabilità, l’ignoto autore del falso si era servito di un pannello mobile,
azionato davanti alla finestra e ricoperto di carta trasparente. Su di esso era
stato dipinto il cortese “disco” in visita. Il sistema è illustrato in questo
stesso servizio, sia pure con un pannello più piccolo: ma è possibile costruire
anche grandissimi, e molto distanti dalla macchina da presa, facendo quindi
“volare” dischi molto grossi.
Quando la scena che si vuol
“documentare” è buia, molte difficoltà cadono. Su un pavimento o anche su un
muro grigio compatto è possibile far muovere o comunque fotografare qualunque
oggetto illuminato da luci radenti, con splendidi effetti. Con obiettivo tutto
aperto, si può far rotolare una pallina di vetro, anch’essa illuminata, creando
“tracce” molto suggestive. Non c’è alcun dubbio che moltissimi trucchi sono
stati ottenuti appunto così.
Il 5 maggio del 1959, due
studenti inglesi, Brian Whitelaw e Frank Channel, si presentarono a Londra al
“Daily Express” e tesero con aria innocente una macchina fotografica. “Qui
dentro – dissero ai giornalisti subito
accorsi – c’è un disco volante che abbiamo fotografato a picco sulla Torre del
Parlamento”. La pellicola fu estratta e sviluppata: vi era effettivamente un
bel disco “tipo Adamsky”, traslucido e ben netto, sospeso nel cielo, a pochi
metri dalla bandiera britannica issata sul fastigio del tetto. Ma i redattori
del “Daily Express” fecero poca fatica a scoprire che si trattava di una
“doppia esposizione”, abbastanza abile. Dopo tre ore di interrogatorio gli
studenti crollarono e confessarono che avevano escogitato il trucco per
guadagnare le mille sterline, quasi due milioni di lire, che il giornale aveva
posto in premio a chi avesse portato una foto autentica di “dischi volanti”.
Dapprima, spiegarono, avevano fotografato il Parlamento e poi, in camera
oscura, la riproduzione di un disco appiccicata su un vetro, e ben illuminata.
Whitelaw e Channel non erano i
primi “doppi espositori”, ma furono due dei pochi scoperti: in effetti quasi
nessuno ha interesse a denunziare pubblicamente i falsi messi in luce. Un
trucco fotografico non è un delitto, a meno che non serva di supporto per una
vera e propria truffa. Ma la maggior parte dei creatori di trucchi non persegue
fini di lucro: basta loro la gloria di veder pubblicata la fotografia. E ad
alcuni di essi capita persino di costruire un romanzo sul falso, o di divenire
personaggi di una polemica, nella quale viene a crearsi una speciale “doppia
verità” in fondo stupefacente. E’ il caso di un impiegato italiano che qualche
anno fa vendette per 300 mila lire ad un settimanale di Milano una serie di
fotografie scattate in alta montagna, nella quale si vedeva un disco dapprima
volante, poi a terra, persino con sagome indistinte che sembravano esseri
viventi, di una strana specie. Il giornale si persuase che le foto potessero
essere autentiche, e dispose perché con una di esse venisse addirittura fatta
la copertina. Sennonchè all’ultimo momento l’impiegato fu preso da un notevole
terrore sulle conseguenze di quello che egli sapeva benissimo essere un falso e
telefonò dicendo con voce fioca la verità, cioè di aver ripreso nel giardino di
casa sua, contro alcune piccole rocce, niente altro che un bottone. Il giornale
non fece più in tempo a cambiare copertina, e riuscì a salvarsi in extremis con
una fascetta sovrastampata, che ridimensionava la notizia.
La parte più divertente della
cosa è che alcuni appassionati dei “dischi volanti” sostengono oggi che in
realtà le foto erano verissime: ma che il giornale è stato costretto, per
misteriose influenze, a camuffare la verità, buttandola in ridere. Non servì
neppure, a quell’epoca, che un fotografo di Milano, come si vede nelle nostre
illustrazioni, rieseguisse il medesimo trucco, servendosi di un disegnatore
assai bravo, per sgonfiare quel gigantesco “canard”.
I falsi non fotografici, quelli
che potremmo chiamare “reali”, offrono un lato di particolare interesse: come
abbiamo già detto la “Domenica” ha costruito e fatto volare, servendosi di
piccoli palloni sonda in uso presso l’aeronautica militare, un vero e proprio
“disco”. Il lancio è stato eseguito giovedì 16 febbraio da un punto della
periferia nord-ovest di Milano, col programma di far sorvolare all’oggetto
l’intera città. Un ingegnoso dispositivo manteneva a tutto l’insieme la quota
di circa duecento metri. Poiché il disco aveva un diametro di due metri, ed era
colorato di rosso vivo, con la classica forma alla quale tante fotografie e
descrizioni ci hanno abituato, si supponeva che sarebbe stato visto da numerose
persone, le cui parole sarebbero state poi raccolte. L’esperimento era
interessante, poiché avrebbe permesso di decidere, su un oggetto reale, quali
possono essere le deformazioni di osservatori casuali. E di stabilire, su un
percorso conosciuto, quanti possono essere questi osservatori.
In realtà, dopo un ampio giro
sulla città, il falso disco si è allontanato verso nord-ovest, sorvolando Pero,
poi Rho, Legnano, Busto Arsizio e Gallarate: nonostante la giornata chiara, e
la perfetta visibilità riscontrata da noi personalmente seguendo il tragitto,
esso non è stato visto da alcuno, se si eccettua un gruppo di operai a Pero,
che non vi ha fatto gran caso.
L’esperimento ha provato, salve
ulteriori segnalazioni, che dato un disco, o comunque un oggetto inconsueto nel
cielo, la probabilità maggiore è quella che non venga visto piuttosto che
quella contraria. La nostra civiltà non è certo da “mani in tasca e naso al
vento”: ed è probabile, come diceva Shakespeare, che “vi siano in cielo più
cose di quante non sogni la nostra filosofia”.
Articolo di F. Bandini, G. Masini e B. Pieggi pubblicato su “La Domenica del Corriere”
anno 69 n. 11 del 12 marzo 1967
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